Bruno Rovesti

BRUNO ROVESTI PITTORE CONTADINO CELEBRE EUROPEO

di Giuseppe Amadei


Testo ancora attuale redatto per una rivista di Roma nell’ottobre 2007 in occasione dei cento anni della nascita e dei venti dalla morte (1907-1987) del celebre naif gualtierese. Per ricordarlo l’Amministrazione comunale organizzò una grande mostra antologica.


Si tratta di un giusto e meritato riconoscimento ad un pittore che ha saputo imporsi per le sue grandi doti coloristiche, per le sue innate capacità artistiche e per il suo sperimentato talento, ottenendo ampi consensi da parte dei più importanti e qualificati critici d’arte di tutta Italia ed in particolare acquisendo la fiducia, la stima e l’apprezzamento di Cesare Zavattini, che non cessava mai di lodarlo e ricordarlo come uno dei più grandi naifs del nostro tempo. La mia conoscenza, il mio interesse per le sue opere, l’acquisto del mio primo quadro di Rovesti risalgono a molti anni addietro, quando rientravo a Guastalla, ogni fine settimana, provenendo da Roma e passando per Gualtieri: mi fermavo regolarmente (la tappa era obbligatoria) presso la vecchia e decrepita abitazione di Rovesti, il quale mi riceveva nel suo disadorno studio-cucina per discutere insieme e per ammirare i suoi dipinti dagli smaglianti colori. In quei lontani tempi solo Cesare Zavattini, Sergio Negri, il sottoscritto e pochi altri erano convinti del valore del nostro pittore, il quale trovava difficoltà a collocare qualche suo dipinto, che prezzava, tenendo conto delle ore impiegate per comporlo, moltiplicate per il compenso orario di un operaio. Però anche troppo presto, per mia sfortuna, imparò a chiedere somme più elevate, adeguate alla sua crescente notorietà. Spesso interveniva, non richiesta, la moglie che, tenuto conto della necessità di avere un po’ di soldi, consigliava il marito a cedere il quadro anche per un prezzo inferiore: “Ma dàgal, Bruno ca gom bisogn ad sold”. E qui mi taccio per non riferire le parole, non molto gentili, con le quali Rovesti apostrofava la moglie in presenza di tutti, per essersi intromessa nella contrattazione. Poi, concluso l’affare, tornava rapidamente il sereno: la moglie era felice di vedere finalmente recuperato un po’ di denaro, realizzando il suo sogno, anche se la fatica del vivere non diminuiva molto con quei pochi soldi; lui, invece, era un po’ meno contento di vedere partire una sua creatura, pensando sempre che avrebbe dovuto prendere un prezzo maggiore. Risale a quei lontani anni il tempo in cui io scrissi, per la prima volta, un testo su Bruno Rovesti nella rubrica mensile Artisti contemporanei” di una rivista romana e ricordo di aver ricevuto molti consensi. Dunque, già cinquant’anni fa ero convinto della validità di Rovesti e già allora scrivevo che era uno dei più importanti naifs del XX secolo: uno straordinario maestro del colore ed il colore, diceva Kandinsky “è il mezzo per esercitare un influsso diretto sull’anima”. Rovesti era consapevole di essere un contadino, autodidatta, senza mezzi e senza scuola, ma pur sempre sicuro ed orgoglioso di essere un celebre pittore. I suoi dipinti sono un tripudio di colori che ti circondano come in uno spazio naturale, saturo e quasi surreale. Fra un suo quadro e l’osservatore si instaura quasi un rapporto fisico che sempre l’artista vuole indurre in chi entri in contatto con una sua opera. In fondo Rovesti non si poneva mai il problema se quello che faceva era arte o no, a lui serviva per vivere e per soddisfare il suo grande bisogno di non sentirsi emarginato. La sua vita e le sue opere hanno sempre viaggiato sul filo dell’immaginazione e della necessità di lavorare per vivere, mettendo i colori dove andavano messi per fare: “paiesaggi” con alberi variopinti e splendidi colori; povere casupole nella golena del Po; alluvioni disastrose con piante divelte, mentre il vento trascinava con sé ogni cosa; uomini e donne affaticati nel lavoro campestre; animali domestici, volare di neri uccelli e nuotare di gonfi pesci; distruzioni catastrofiche causate dalla bomba atomica; fiori di campo e di giardino delicatamente e finemente ritratti....e su tutto sovrastava - a volte - un limpido cielo “segno di bel tempo” ed altre volte un cielo livido e nuvoloso “segno di pioggia” come era solito scrivere immancabilmente nel retro di ogni suo dipinto. Già! Va ricordata la particolarità, del tutto personale, di scrivere sempre e minutamente, dietro ogni quadro, quello che aveva rappresentato dall’altra parte, con un linguaggio puerile, tutto suo, e con una calligrafia da zampa di gallina cosparsa di errori di ortografia e di grammatica, ma simpaticamente interessante, magistralmente concepita e squisitamente poetica. Nello scritto non mancavano mai le due consonanti “DF” (dimensione-formato) seguite dal numero dei centimetri (esattissimi fino al mezzo centimetro) e poi la firma “Pittore contadino CE (celebre) ed Europeo”. Dunque, dalle arcane sponde del Po, salta fuori, oltre Antonio Ligabue, un altro straordinario pittore, autoctono, padano verace, contadino vero e non presunto, naif autentico e non costruito, cresciuto fra boschi di pioppi e di salici. Salvo il periodo militare ed il ricovero presso il Sanatorio di “Castelnuovomonti”, Rovesti ha sempre abitato a Gualtieri, paese rivierasco del Po e la pianura padana è sempre stata per lui la piattaforma della sua creatività, il luogo ideale dove si riflette il suo mondo che è fatto di tribolazioni ma anche di incanto e di ostinata speranza di diventare un grande pittore. Nonostante il suo brutto carattere, i suoi litigi, i suoi dubbi, i suoi limiti e le sue angosce, Rovesti è dotato di una squisita sensibilità che lo fa diventare, allo stesso tempo, pittore e poeta. Anche senza aver mai letto un libro, né studiato un poeta, incredibilmente le sue opere hanno una loro poesia, forse un po’ decadente, ma di una decadenza splendida che si protrae nel tempo, come i tramonti dorati dell’autunno nella nostra pianura padana. Inconsciamente prova una forza contemplante, con cuore di bimbo, del mistero della vita. Egli è ammagliante nel viaggio superbo dei colori in cui trasfigura l’universo ordinario del paesaggio quotidiano. In lui sopravvive una serie di azioni, di sentimenti, di piccole cose, in cui si illuminano le ragioni della vita: un insieme di contraddizioni e di diversità che lo spingono a creare qualcosa di cui non può fare a meno. Quando io mi trovavo ad osservare i suoi quadri distesi a terra od appoggiati ai muri, mi sembrava di ascoltare, con gli occhi, la successione di brani di un racconto fantasioso ed incalzante che interpretava la voce dei sentimenti e degli affetti. I suoi quadri hanno raggiunto vertici elevati di sensibilità e di tonalità dei colori ed hanno toccato un alto grado di piacevolezza. Lasciatemelo dire, anche con un po’ di titubanza: i suoi colori penso siano un’esplosione ed una meraviglia e, si sa, il meraviglioso è l’unica fonte del legame eterno fra gli uomini ed è l’esigenza profonda del genere umano. GIUSEPPE AMADEI